"Ci vuole un po' passione per fare il minatore, un po' di orgoglio di essere qualcosa, altrimenti il lavoro non viene bene."
Mi chiamo Vincenzo Foglio. Sono nato a Bagolino nel 1936 e ho cominciato a lavorare per la ditta Sigma nel settembre del 1961, avevo 25 anni.
Ho cominciato a lavorare lì tramite mio fratello Renzo. Zanetti Giuseppe, di Bagolino, che faceva il teleferista, ci ha detto che alla Sigma avevano bisogno di minatori. Mio fratello in ottobre, è rimasto dentro una settimana e poi è tornato a casa perché non gli piaceva dicendomi “vai su tu perché dentro il “minatoio” non ci sto”. Allora sono andato io al suo posto.
Ho sempre fatto il minatore e negli ultimi anni che ho lavorato alla Sigma ero anche diventato sorvegliante. Il dottor Felice Cima non l'ho mai conosciuto perché è morto pochi mesi prima che andassi a lavorare io. La concessione è passata alla madre che ha chiamato a dirigere l'azienda un altro figlio che faceva il farmacista a Milano. Questo ha tenuto in piedi l'attività per alcuni anni, ma quando c'è stato bisogno di fare degli investimenti hanno venduto. Nel 1975-76 la ditta è stata comperata dalla Mineraria Baritina di Darzo.
Ho fatto sia il minatore che il “boscatore” che è quello che fa la galleria armata con il legname per sostenere la roccia franosa, che noi chiamiamo “marciavanti” fatto con dei tronchi come “gambe” e delle travi come “capèl”. Si chiamava anche “quàdér” quando oltre all'architrave superiore si metteva un tronco anche a livello del pavimento per sostenere le spinte laterali dei fianchi della galleria. Il più delle volte, però, bastava fare un'imposta, cioè piantare le “gambe” nel terreno o nella roccia. Ho fatto anche dei contratti a cottimo per scavare le gallerie ed estrarre la barite: magari quando avevano fretta si pattuiva con la ditta di fare un metro, un metro e mezzo al giorno di galleria e quello che si faceva di più lo pagavano circa 30.000-35.000 lire al metro lineare. Le armature in legname si facevano anche per scavare i fornelli per andare da una galleria all'altra, che potevano avere diverse inclinazioni oppure essere a piombo, se servivano per lo scarico del materiale. Per scavare un fornello si faceva il ponte nella galleria: si mettevano due legni e quattro tavole per fare il sostegno della macchina perforatrice. Una volta intestato il foro e regolata la pressione, la macchina andava avanti da sola. In questo modo si segnava la corona dei fori e il centro la “rinöra” per mettere le cariche. Facevamo in modo di collegare tutte le cariche tra loro, ma di farle brillare con qualche secondo di distanza l'una dall'altra. Le numeravamo dallo zero fino al trenta o al quaranta, ma in modo che non partissero tutti insieme; ne saltavamo alcune, magari dal quattro al sei e così via. Mentre la “rinöra” al centro si faceva esplodere tutta insieme in modo da fare in centro un grande buco e aiutare le esplosioni laterali. Questo sistema di fare la volata si usava per forare la volta della galleria, ma anche in piano per gli avanzamenti. Mentre brillavano i colpi, noi li contavamo per essere sicuri. Si sparava a volte con la miccia detonante, a volte con la corrente elettrica. Questo sistema si usava quando si lavorava in situazioni scomode, quando magari si scavava dentro un fornello e c'era il rischio di non riuscire ad allontanarsi in tempo, perché l'innesco lo davamo con la macchinetta e potevamo metterci al sicuro prima di dare il via alla volata. Altrimenti il modo normale era quello di accendere le micce con le lampade: davamo la fiamma e dovevamo allontanarci di corsa perché la miccia durava solo 4 o 5 minuti. Quindi si usava questo sistema nelle situazioni più semplici.
Il pericolo stava dopo quando si doveva “smarinare”, vale a dire togliere il materiale dopo l'esplosione, è chiaro che non si aveva la certezza che non cadesse qualche sasso mentre si stava lavorando. Personalmente non ho mai avuto infortuni gravi mentre ero presente ad un brutto incidente dove è morto Quintilio Zaninelli un ragazzo di 25 anni. Era stato assegnato a me perché gli insegnassi il lavoro, ma durante la festa di Santa Barbara è venuto a chiedermi di poter fare coppia con un altro giovane che c'era su, Carè faceva di cognome, il nome non me lo ricordo, perché stando in compagnia di un altro della sua età gli sembrava che il lavoro fosse più leggero. Era il 1985. Mentre il compagno portava fuori il materiale, Quintilio è rimasto sotto una frana che ha distrutto tutta la galleria. Abbiamo lavorato tutti noi minatori per ore per tirare fuori il ragazzo, abbiamo scavato un cunicolo sotto la frana per arrivare a prenderlo, ma era sotto una trave. Allora abbiamo tagliato con la motosega il legno e per farlo bisognava entrare nel cunicolo con la motosega accesa tanto era stretto. Intanto la frana continuava a venire giù. Poi per fortuna l'abbiamo tirato fuori vivo, un ragazzone grande e grosso, e non sembrava stare neanche tanto male. È stato portato all'ospedale di Tione ma durante la notte è morto. Il pericolo c'era sempre ma con l'esperienza si imparava a riconoscerlo. Si andava sul posto con la lampada e se c'era qualcosa di pericolante bisognava cercare di farlo cadere, noi dicevamo “disgagiàr”, cioè con un “sapù” o un “palanchì” si batteva e si facevano cadere i sassi pericolanti. Se il pericolo invece era maggiore bisognava puntellare con i legni in modo più stabile. Però se la roccia era sana non c'erano particolari problemi, perché una volta sparato non rimaneva niente in situazione di pericolo. Certo mi è capitato spesso di trovare la sorpresa: arrivare su e trovare un sasso che è lì pronto per partire. Oppure una volta mi è capitato di trovare l'acqua: toglievo il "ferro da mina" e usciva l'acqua e questo era pericoloso perché poteva causare delle frane, e perché dove c'è acqua la roccia non è sana, e può muovere dei sassi che ti possono cadere addosso.
Ho imparato il mestiere lavorando, e se hai un po' di passione non ci si mette tanto a capire come funziona. Il primo che mi ha insegnato è stato Cimarolli Pasquino da Baitoni solo all'inizio perché, poi ha fatto il sorvegliante per sostituire un altro sorvegliante da Cavalese che è morto all'improvviso. C'era su una caterva di persone da Storo, Riccomassimo, Baitoni, Bondone. Da Bagolino c'era Stagnoli Marino detto “Vito”, Stagnoli Federico, e anche un altro mio fratello, Pasquale. La miniera della ditta Sigma era a Pice, e il dormitorio e la mensa con il cuoco Festa Antonio da Storo, era più a valle circa mezz'ora di strada a piedi.
Il passaggio alla ditta Baritina nel 1976 è stato gestito dal sindacato: la nuova proprietà per avere la concessione mineraria delle gallerie della Sigma ha dovuto garantire di assumere il personale sia della miniera che dello stabilimento: a Pice eravamo 27, tra minatori, teleferisti e altri servizi. C'è stato chi si è licenziato, ma perché aveva trovato un altro lavoro, nessuno è rimasto disoccupato. L'ambiente di lavoro era diverso tra le due ditte: alla Sigma era maggiore il lavoro manuale perché la miniera di Pice non aveva l'accesso carrabile comodo come a Marìgole per portare i macchinari grossi. Infatti qui hanno potuto anche ingrandire la sala dei compressori per metterne di più potenti quando sono state introdotte le pale gommate. Con queste la “smarinata” si faceva più veloce: bastavano due ore. A Pice avevamo le pale su binario perché le gallerie erano più piccole di quelle di Marìgole e il lavoro era più lento. Inoltre, a Marìgole hanno dovuto introdurre la ripiena cementata perché la montagna era stata molto scavata e non stava più ferma, bisognava continuare a puntellare e armare le gallerie perché, dal peso, i legni si rompevano. Allora con dei rilievi hanno individuato dove si trovava la vena più grande di minerale, e in corrispondenza a giorno hanno fatto uno sbancamento di 50 metri quadrati per costruire una platea in calcestruzzo armato di ottanta centimetri, un metro, di spessore. Sotto questo platea abbiamo cominciato a scavare le gallerie per estrarre il materiale. Le gallerie si facevano alternate in modo che la parte non scavata sostenesse la platea. In questo modo avevamo il tetto stabile e si potevano fare le gallerie alte tre metri e larghe altrettanto per lavorare più sicuri e estrarre più materiale. Poi una volta scavata la galleria che era profonda cento o centro cinquanta metri, si riempiva di calcestruzzo con gli inerti che erano lo sterile estratto dalla stessa galleria. In questo modo si poteva poi estrarre anche quella parte di barite che era rimasta indietro, perché le gallerie cementate tenevano su la volta. Arrivavano le betoniere a fare il calcestruzzo e si gettava con la pompa di continuo anche per una settimana, giorno e notte altrimenti se si lasciava che il calcestruzzo iniziasse la reazione poi non si collegava con il getto successivo. Per fare queste operazioni facevamo i turni anche di notte. Una volta esaurito un livello si facevano i fornelli e si scendeva a scavare sotto, ma si scavavano delle gallerie sfalsate rispetto a quelle superiori, per dare maggiore solidità a tutto l'insieme. Quando ho smesso io, la lavorazione era scesa di cinque livelli. Per scaricare il materiale dalle gallerie con la pale gommate lo si portava ai fornelli di scarico. Il materiale usciva più o meno all'altezza della galleria Impero dove c'era la teleferica che portava giù il materiale allo stabilimento. Per portare fuori il materiale si occupavano le persone meno pratiche, perché era un lavoro facile quello di scaricare le tramogge, guidare un vagone e portare il materiale fuori alla teleferica. Altro discorso era saper armare la galleria o far brillare le mine, ci voleva una certa qualifica almeno “boscatore” o minatore.
Siccome alla Sigma ero sorvegliante anche alla Baritina ho mantenuto la qualifica alta, anche se non facevo più il sorvegliante perché quando siamo stati assorbiti dalla Baritina, a Marìgole il sorvegliante, vale a dire il capo, c'era già. In quegli anni la legge prevedeva che ogni tanti operai doveva esserci un perito e siccome la Baritina assumendo tutti gli operai della Sigma doveva avere, oltre a Tanghetti anche un altro perito, ha assunto Emilio Bartoli che ovviamente faceva il capo. Quindi anche se andavo a scavare in miniera come gli altri, mantenevo lo stipendio da sorvegliante. Prendevo 600.000 lire al mese, che comunque non era tanto. Non si guadagnava tanto a fare questo mestiere. All'inizio mi ricordo alla Sigma prendevo 38.000 lire ed erano poche. Certo c'erano altri lavori, come andare a lavorare nel bosco o in montagna con le bestie, dove si prendeva molto di più, ma erano lavori precari, bisognava prendersi da mangiare, non si avevano gli assegni famigliari e se c'era un infortunio si stava a casa senza stipendio. Quindi facendo i conti, il lavoro di minatore conveniva perché era sicuro, avevamo la mensa, e tutti i diritti anche le ferie pagate. Poi già dopo qualche mese mi ricordo che ho cominciato a prendere sulle 60.000 lire, non tanti ma una goccia continua.
A dire la verità prima di andare a lavorare in miniera mi dicevo “farò tutti i lavori, ma in galleria non mi fanno andare!” e poi ho fatto dentro tutta la vita, 26 anni di lavoro.
La passione mi è venuta, perché senza passione fai più fatica e non ti viene bene il lavoro, la passione ci vuole per forza in tutte le cose. Anche per fare il minatore bisogna avere po' di orgoglio di essere qualcosa, di non essere l'ultima ruota del carro. Insomma se mi hanno fatto sorvegliante vuol dire che il lavoro ero capace di farlo, e quando sono andato alla Baritina, e il perito Emilio Bartoli che era appena uscito dalla scuola mi chiedeva consiglio su come fare dei lavori difficili, perché gli mancava la pratica. Mi chiedeva “Vincenzo, questo lavoro va fatto così o così?” e io gli dicevo il modo come era andava fatto.
Con i colleghi i rapporti erano buoni sia alla Sigma che alla Baritina, mai una litigata, solo qualche mezza brontolata su qualche cosa del lavoro, ma poi alla sera si giocava a carte e si parlava. Alla Sigma quando ero sorvegliante mi dava ordini il perito Enrico Casotti; adesso è morto ma avevamo buoni rapporti mi veniva a trovare anche a casa. Alla Baritina avevo e ho ancora ottimi rapporti con il perito Gianvittorio Tanghetti che mi manda a salutare anche adesso. Anche l'ingegnere Piero Corna mi stimava: lo ha detto a mia moglie durante una festa di Santa Barbara che era soddisfatto di come lavoravo e si fidava. Mi ricordo che quando abbiamo cominciato a fare le otto ore noi che abitavamo vicino e avevano la macchina, tornavamo a casa volentieri magari a stare dietro alla campagna. C'erano in quegli anni anche dei lavoratori della Val Camonica, che invece avevano piacere di lavorare ancora dieci ore perché tanto a casa non tornavano. Quindi succedeva che al termine delle otto ore facevo brillare le mine per tornare a “smarinare” la mattina dopo. Però in questo modo questi minatori non potevano continuare a lavorare con la polvere della volata nella galleria. Quindi l'ingegner Piero è venuto a chiedermi se mi dispiaceva di non fare la volata quando andavo via ma di farla fare a questi minatori in modo da permettere loro di continuare a lavorare. Insomma l'ingegnere mi portava in palmo di mano.
Sono andato in pensione nel 1988 e non ho problemi di salute, ho solo perso un po' l'udito a causa del rumore delle perforatrici perché i primi tempi non usavamo le cuffie.
Mio fratello Pasquale Foglio era nato nel 1922 ed è deceduto nel 2009. Ha fatto il minatore per la ditta Sigma ed è andato in pensione prima che subentrasse la ditta Mineraria Baritina.
Mio fratello Renzo Foglio è nato nel 1940 e ha lavorato per la Sigma prima nel 1961 poi è andato via. Dopo è ritornato a lavorare fino al 1970 e alla fine è andato all’acciaieria di Odolo (BS).
Intervista raccolta a Bagolino il 9 maggio 2013.
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