"Quando lavoravo al nastro se vedevo passare dei bei pezzi di barite li tiravo fuori: guarda questo sembra che ci sia rimasta stampata una foglia. Per me questi pezzi sono il ricordo di trent'anni di lavoro."
Mi chiamo Sergio Beltrami. Sono nato nel 1948 a Darzo. Avevo un fratello gemello Nello che è morto l’anno scorso. Ho lavorato per la Mineraria Baritina dal 1971 al 2001. Ho trovato lavoro nella Mineraria perché ho preso il posto di mio papà che è morto nel 1971 e mio cugino Luigino Beltrami mi ha introdotto perché era capo operai. C’è stata tutta una tradizione in famiglia: mio papà che era del 1904, poi sono stato assunto io e mio fratello, poi nel 1992 è subentrato mio figlio Enrik e poi mio nipote Allen. All’inizio ero addetto al mulino poi sono stato spostato al lavaggio. Il lavaggio consisteva nel lavare il materiale che arrivava direttamente dalla miniera. C’era una botte con dei fori in cui passava l’acqua. La botte girava e il materiale si lavava sia la barite che lo sterile. Poi usciva il materiale e c’erano le donne addette alla cernita che erano tredici o quattordici mentre adesso ne è rimasta solo una. All’epoca si sceglievano diversi tipi di barite: la "nivea" [la chiamavamo così per il suo colore bianco], la "suprema", la "pelio", la meno pregiata. Dipendeva dalle richieste del cliente, da cosa gli serviva. Poi passata la cernita andava giù al frantoio che la macinava e da lì andava ai silos. Se la barite serviva molto fine passava all’essicatoio e poi al mulino che la rendeva polvere finché poi andava giù e veniva messa nei sacchi di raccolta. Questi venivano imbancati su dei pallet da quindici quintali e venivano messi in magazzino. Prima, quando si faceva il lavoro a mano i sacchi venivano riempiti con una paletta. Poi venivano pesati e se non erano perfettamente 50 kg con la paletta bisognava togliere o aggiungere. Quindi i sacchi venivano legati uno per uno con lo spago e trasportati con il carretto a mano. Allora si impiegava molto tempo per caricare e scaricare i camion. Io preferivo lavorare al lavaggio perché al mulino c’era la polvere e all’epoca era tutto all’aperto e si prendeva freddo alla schiena. Poi bisognava caricare i camion a mano. Comunque anche al lavaggio non era il massimo perché si stava sempre a contatto con l’acqua del canale che portava via l’acqua del lavaggio e quindi c’era umidità. Durante il lavoro mi sono infortunato una gamba, ma non ho fatto le carte e quindi non mi è stato riconosciuto l’infortunio sul lavoro, ho dato ascolto all’impiegata che mi aveva consigliato di lasciare perdere. Per cui adesso io sono in pensione ma la mia gamba è a rischio. Con i colleghi mi sono sempre trovato bene e anche con i capi. Comunque ci sono stati dei punti di gelosia. Una volta, siccome ero a contatto con il capo, un giorno mi sono trovato un biglietto sotto la sella del vespino dove tenevo il panino con su scritto “Viva tutti i ruffiani, tu sei il capo”. Ma cosa c’era da dirmi, non ero privilegiato, stavo lì al mulino.
Mio papà si chiamava Antonio Beltrami ed era nato nel 1904 ed è morto nel 1970. Ha lavorato tutta la vita al mulino della Baritina e all’epoca non c’erano gli aspiratori, mi ricordo che tornava a casa tutto bianco. Si vedevano solo gli occhi e anche se si lavava, restava sempre un po’ di polvere. Era malato ai polmoni e negli ultimi tempi quando camminava si doveva fermare lungo la strada un paracarro sì e uno no. È morto appena andato in pensione.
Poi anche mio fratello gemello Nello Beltrami che è morto l’anno scorso di malattia ha lavorato alla Baritina. Adesso c’è giù mio figlio Enrik Beltrami che lavora dal 1992. Anche mio fratello Onorio Beltrami ha lavorato come autotrasportatore per le ditte minerarie anche se non è mai stato assunto e ha sempre lavorato in proprio.
Intervista effettuata a Darzo nel mese di novembre del 2010.
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