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Mazzini Bonardi

Mazzini Bonardi

"Lo stabilimento della Maffei a Sant'Antioco in Sardegna era sulla banchina del porto e quindi la barite prodotta si imbarcava direttamente sulle navi che la portavano in Kuwait, Abu Dhabi e si diceva poi che una volta a destinazione, la barite venisse scaricata con i cammelli."

Mi chiamo Mazzini Bonardi. Sono nato a Idro in provincia di Brescia nel 1933 da una famiglia di pescatori del lago. Il soprannome della mia famiglia è "Melie".
Ho trovato lavoro alla Maffei tramite la mia fidanzata, oggi mia moglie Prudenza Zanardi, che era figlia del capo Innocente Zanardi e abitava ad Anfo (Valle Sabbia, Brescia). Erano anni duri quelli, fino a che non si è sbloccata la crescita edilizia, qui non c'era lavoro e si emigrava in Svizzera, in Francia perfino in Australia. Da Anfo appena finita la guerra quando la fame era tanta, molti sono andati a lavorare a Darzo grazie a Zanardi.
Sono stato assunto dalla ditta Maffei nei primi mesi del 1958 in previsione dell'apertura dello stabilimento di Sant'Antioco in Sardegna dove mi sono trasferito il 1 maggio dello stesso anno dopo aver lavorato qualche mese a Darzo come magazziniere. Mancavano pochi mesi all'inaugurazione dello stabilimento nuovo che era stato aperto dalla Maffei con una parte di capitale americano della ditta Baroit per produrre barite nera, che serviva alla trivellazione dei pozzi di petrolio. Lo stabilimento era sulla banchina del porto di Sant'antioco e quindi la barite prodotta si imbarcava direttamente sulle navi che la portavano in Kuwait, Abu Dhabi. Si lavorava per la ditta Ranco e arrivavamo ad imbarcare minimo 3000 tonnellate alla volta di materiale. Si diceva, poi, che una volta a destinazione, la barite venisse portata via sui cammelli. Un giorno vedo che arriva allo stabilimento il dottor Italo con tre o quattro americani che girano di qua e guardano di là; allora poi lo prendo da parte e gli chiedo cosa stesse succedendo. Il dottore mi risponde che la Maffei ha deciso di vendere la sua parte agli americani che fino ad allora avevano solo il 50%, perché quello non era il genere di lavoro che interessava alla famiglia. A quel punto mi preoccupo, e gli chiedo se rischio di restare senza lavoro perché se gli americani chiudono bottega altro lavoro in Sardegna non ce n'è. Allora lui mi dice di non preoccuparmi e che se c'è bisogno posso tornare a lavorare a Darzo. Dopo questo fatto, sono restato giù in Sardegna a lavorare per un paio di anni insieme agli americani e da magazziniere sono diventato capo degli operai, ma vedevo che le cose non funzionavano bene: ogni tanto si fermavano i mulini e poi il materiale veniva venduto ad un prezzo più basso di quanto costava a produrlo; mi dicevano che era per la concorrenza, ma non mi fidavo. Poi una volta viene a casa mia la moglie del dottor Italo, la signora Mirella e mi dice, per conto del marito, che a Darzo è andato in pensione il Bepi Armani, allora capo dello stabilimento, e che se voglio posso tornare a lavorare alla Maffei. Immediatamente  ho deciso di mettere i remi in barca di tornare. Nel luglio del 1964 ho messo tutta la mobilia e le altre cose in un vagone, perché nel frattempo mi ero sposato e avevo avuto una figlia, e siamo venuti a Darzo. Prima abbiamo abitato in paese e poi il dottor Italo ha voluto che abitassi nello stabilimento, così ho cominciato un nuovo lavoro.
Qui si produceva feldspato perché la miniera di Val Cornèra era già esaurita. Si macinava e si insaccava, era un tipo di lavoro simile all'Italcementi. Il materiale partiva per tutto il nord: fornivamo la vetreria di san Salvo, le fabbriche di ceramiche di Sassuolo: negli anni '60 partivano e arrivavano anche 30 autotreni con rimorchio al giorno. Io ho assistito al progresso nel lavoro nello stabilimento che è cominciato proprio in quegli anni: l'aumento della produzione perché si mandava via il prodotto nelle cisterne invece che solo nei sacchi che si sono ridotti progressivamente al 20% della produzione. In questo modo si evitava la fase dell'insaccamento e del trasferimento sui camion rendendo il lavoro meno faticoso, più veloce e più pulito nella fase di carico e scarico dei camion. Si lavorava bene e tanto, ma verso la fine degli anni '70, se non ricordo male, il clima si è un po' rovinato.
La ditta Maffei era di tre fratelli ognuno seguiva una parte del lavoro: il dottor Italo si occupava degli stabilimenti, degli aspetti tecnici e produttivi, gli altri due erano a Milano e si occupavano dei clienti, delle spedizioni e di altre cose. In quel periodo devono aver avuto delle questioni tra loro e hanno litigato, quindi è stato messo come amministratore delegato dott. Franza di Milano che stava sempre in sede e non veniva mai negli impianti, non sapeva neanche dove fosse Darzo. Allora il dottor Italo ha ceduto la sua quota del  33% della ditta, si è trasferito a Campiglia Marittima e ha aperto un altro stabilimento di lavorazione del feldspato.
Noi siamo andati avanti con gli altri due fratelli. Da lì in poi è cominciata la lenta decadenza: Pinzolo stava chiudendo, si è cominciato a comperare materiale dall'estero, dalla Turchia, c'erano i sintomi di un futuro non bello. Ad un certo punto la ditta è stata comperata da una ditta di produttori di piastrelle, la ditta Iris, che prima fornivamo noi, quindi in questo modo abbiamo perso gli altri clienti perché il nuovo proprietario non era favorevole a fornire i suoi concorrenti e noi a quel tempo fornivamo, a occhio, 70% del feldspato che circolava in Italia. Infatti i camionisti ci dicevano che le ditte che fornivamo si lamentavano che non arrivava il materiale, a anche i clienti telefonavano per sollecitare le forniture. Allora noi chiedevamo a Milano cosa stesse succedendo e ci rispondevano che il materiale non c'era e altre cose che si capivamo che erano scuse. In poche parole abbiamo perso a poco a poco i clienti che avevamo da anni.
Il mio lavoro allo stabilimento era quello di responsabile della produzione. Eravamo due capi che ci turnavamo nell'arco delle 24 ore: un turno era dalle  4.00 alle 13.00 e un altro dalle 13.00 alle 4.00; avevamo la reperibilità, ma venivamo retribuiti solo per le 8 ore. Venivamo chiamati a qualsiasi ora dagli operai se c'erano guasti perché lo stabilimento non doveva mai fermarsi, era a ciclo continuo. Se c'era un guasto bisognava andare a cercare il tecnico, l'elettricista, o un altro operaio specializzato, perché non c'erano i telefoni cellulari come adesso. Insomma ero sempre reperibile e se uscivo di casa lasciavo detto dove andavo.
Il trattamento economico era come quello delle altre ditte, ma noi in più abitando in un appartamento dentro lo stabilimento, non pagavamo l'affitto e le spese. Diciamo che non erano di manica larga, pagavano come da accordi sindacali. Io e i miei colleghi di quegli anni non abbiamo avuto problemi di salute a causa delle polveri perché negli anni '60 hanno introdotto gli aspiratori ad aria compressa che mettevano in depressione le macchine, i mulini, e i frantoi,  in modo che la polvere non andava in giro per lo stabilimento e non veniva respirata dagli operai. C'erano dei sacchi filtri che bloccavano la polvere aspirata e così l'aria era pulita. Prima che mettessero questi filtri, se si passava vicino allo stabilimento era tutto bianco anche le tegole del tetto, c'era sempre una nuvola di polvere. Alla Maffei ci tenevano che tutto fosse sempre molto pulito e appena queste macchine sono state disponibili dalla Germania le hanno fatte installare. 
Il clima di lavoro era abbastanza disteso, la ditta Maffei non si può dire che sfruttava gli operai: le paghe erano abbastanza buone come i rapporti sindacali. Quando si avvicinava il rinnovo del contratto, il dottor Italo chiamava per tempo il capo della commissione interna e chiedeva quale fossero le richieste  così evitava gli scioperi e le tensioni. Lui anticipava le richieste e se dopo la firma del contratto le retribuzioni dovevano essere più alte, lui pagava la differenza. Le vertenze ci sono state con i Comuni, ad esempio con Pinzolo per le discariche oppure per la chiusura, ma non dipendevano dai Maffei. 
Per me è stato come lavorare in famiglia perché siamo sempre andati d'accordo, e anche adesso se incontro qualche operaio mi invita a casa a bere il caffè. Non mi sembra vero che sono passati 35 anni di lavoro, sarà stato perché avere tanta occupazione fa passare il tempo più in fretta.

Intervista raccolta ad Anfo il 14 marzo 2013.

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