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Maria Bettazza

Maria Bettazza

"Dopo qualche anno di lavoro sono riuscita a comperarmi la bicicletta per andare con le amiche magari fino al lago, però la mia mamma non mi lasciava usarla neanche la domenica."

Mi chiamo Maria Bettazza, sono nata nel 1938 a Darzo e la mia famiglia viene chiamata "i Betàse".
Ho  trovato questo lavoro di cernitrice, perché sono andata a chiedere come facevano tutte, infatti avevamo bisogno. Si andava in ufficio a chiedere agli impiegati e si lasciava il nome. Loro poi avrebbero chiamato quando qualcuna andava in pensione oppure si sposava. In quegli anni c'era molto bisogno di lavorare, soldi c'erano pochi ed era una fortuna avere quel lavoro.
Per andare a lavorare mi alzavo alle 5:00 e facevo otto ore; eravamo tutte ragazze mi ricordo la Cecilia Ariasi, la Liliana Omicini, la Marta Beltrami, la Franca Marini. Passava il nastro con sopra il materiale e noi dovevamo togliere il nero, lo sterile, e lasciare passare la barite che è bianca e che andava a finire in una tramoggia da dove cadeva di sotto. Da lì gli uomini la prendevano e la scaricavano e andava avanti la lavorazione.
Mi ricordo che faceva molto freddo, la stanza dello stabilimento dove stavamo era al chiuso ma senza riscaldamento, e così adesso ho tutte le mani rovinate con l'artrosi. Il materiale era bagnato e per scaldarci mettevamo dei pezzi di legno in un secchio di metallo, quello da muratori, per fare un po' di fuoco. Ma il capo, Bepi Armani, ci sgridava e non voleva che andassimo a raccogliere queste assi di legno perché secondo lui si perdeva tempo.
Non avevamo guanti o vestiti da lavoro particolari; ci vestivamo un po' pesante una vestaglia per non sporcasi, allora non si usavano neanche i pantaloni come adesso.
Facevamo i turni dalle 4:00 alle 12:00 una settimana e quella successiva e dalle 12:00 alle 20:00. Si lavorava anche il sabato. Poi a turno un mese per ciascuna, si puliva la stanza dove lavoravamo. Una volta quando era terminato il mio mese di pulizie il Direttore mi ha chiamato e mi ha mandato a fare un altro lavoro: dovevo pesare il feldspato e la barite con una bilancina in una stanzetta. Ho continuato così fino a che ho smesso di lavorare, perché mi sono sposata nel 1962. Non so perché mi hanno cambiato mansione, ma per me era molto meglio fare questo lavoro, anche se la paga era uguale.
D'estate, oltre l'orario di lavoro, il padrone ci faceva rastrellare il fieno del terreno che circondava la villa, oppure ci facevano battere i sacchi di barite. Lo facevamo volentieri per prendere qualcosa di più. D'inverno nei mesi di più freddi ci licenziavano e riprendevamo in primavera.
Guadagnavo circa 7.000 o 8.000 lire al mese. Quando mi sono licenziata ne prendevo 40.000 mila.
L'ambiente di lavoro mi piaceva e anche lavorare lì; contavamo le ore che avremmo lavorato e pensavamo alla paga che poi davo tutta alla famiglia. Mio papà è morto che avevo 18 anni e aiutavo mia mamma: allora si andava in cooperativa e ognuno aveva il suo libretto e alla fine del mese quando arrivava lo stipendio si pagava il debito.
Tra noi ragazze ci trovavamo bene eravamo quasi tutte di Darzo ed abitavo abbastanza vicino allo stabilimento, anche se quando avevo il turno alla mattina avevo paura ad andare con il buio. Così ci trovavamo con le altre lungo la strada. Certe volte mi addormentavo e non mi svegliavo in tempo e poi dovevo fare le corse.
La nostra vita di ragazze in quegli anni era povera: dopo qualche anno di lavoro sono riuscita a comperarmi la bicicletta per usarla la domenica, ma la mia mamma non mi lasciava usarla neanche la domenica. Per passare il tempo andavamo a passeggiare con le amiche, si andava al cinema a Lodrone o fino al lago ma non potevo usare la mia bici, me l'aveva chiusa e messa via.
Negli anni che sono rimasta lì non ho visto cambiamenti all'interno dello stabilimento né miglioramenti per noi cernitrici. Sicuramente erano anni in cui c'era molto lavoro con la barite.
Mi ricordo anche un incidente mortale. Si chiamava Cornelio Marini, fratello della Franca Marini, un giovane di vent'anni, elettricista, che è rimasto fulminato durante l'orario di lavoro. Stavamo lavorando e un bel momento è saltata la luce e si è fermato tutto. Poi ci hanno detto quello che era successo. Un altro che è morto cadendo nella tramoggia era l'Emanuele Zontini "Tumè", lo chiamavamo.
Le feste di Santa Barbara erano belle: prima si andava a messa, poi ci offrivano il pranzo e i superiori facevano i discorsi. Era una bella festa. Non mi ricordo se si ballava
I proprietari, i Maffei, li avevo conosciuti; venivano ogni tanto: il dottor Italo, la moglie Mirella con i figli. Abitavano in villa d'estate e avevano la servitù per fare da mangiare, pulire la casa e per tenere i bambini.
 
Intervista raccolta a Storo, il 6 novembre 2014

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