"Quando ho cominciato ad andare in miniera i primi giorni ero un po’ disorientato: il buio, l’essere sotto terra, la paura di farsi male ti mettono a disagio anche se ero preparato perché me lo avevano detto quelli che già ci lavoravano."
Mi chiamo Luigi Zanetti. Sono nato a Lodrone nel 1943 e il soprannome della famiglia è “Straciòla”.
Un giorno è venuto a cercarmi Domenico Piccinelli che era il capo della miniera di Marìgole e mi conosceva per via della caccia e dei funghi dato che veniva spesso su per le montagne dove c’era la mia famiglia e mi conosceva fin da quando ero piccolo. Mi ha detto che c’era la possibilità di un posto di lavoro alla miniera e ho accettato. Poi una volta su ho trovato altra gente che conoscevo ed eravamo un bel gruppo. Ho preso volentieri questo lavoro anche perché era vicino a casa e mi permetteva di dare una mano ai miei genitori con la campagna.
Ho cominciato a lavorare nel 1968 su alla miniera di Marigole dove sono rimasto per due anni. All’inizio i primi giorni ero un po’ disorientato: il buio, l’essere sotto terra, la paura di farsi male ti mettono a disagio anche se ero preparato perché me lo avevano detto quelli che già ci lavoravano; chi già ci lavorava ti raccontava come stavano le cose: ad esempio quel fatto capitato a mio cognato Rodolfo Grassi che è rimasto imprigionato delle ore in galleria. Era su un fornello con il suo compagno che lavoravano e il Domenico Piccinelli gli ha consigliato di fare una nicchia nella parere della galleria per lasciare dentro i ferri da lavoro e anche eventualmente per ripararsi se cadeva giù qualche sasso. Per fortuna avevano fatto questa nicchia, perché qualche giorno dopo è venuto giù prima un sasso e poi una frana che ha riempito il fornello fino al livello dei loro piedi quando un sasso grosso ha fermato tutto, altrimenti restavano schiacciati. Non so quante ore tutti gli operati di Marigole hanno dovuto lavorare per liberarli. Chi era rimasto imprigionato comunicava con l’esterno attraverso il tubo che porta l’aria dentro la galleria. Sapere tutto questo ti mette un po’ di soggezione all’inizio, ma poi ti affezioni all’ambiente anche per il clima: fresco d’estate e caldo d’inverno, perché la temperatura è costante tutto l’anno. Non parlo tanto per me che ci sono stato poco, ma se chiedevi a chi ci aveva lavorato venti o trent’anni ti dicevano che non avrebbero mai cambiato lavoro.
Eravamo su più o meno in trenta persone, non eravamo mai tutti contemporaneamente perché qualcuno era in ferie o in cassa malati, ma comunque mai meno di venti. Partivamo il lunedì e ci portavano su con la campagnola o con un pulmino, certe volte il Tone Bòcia di Storo oppure l’Angiolèto (Angelo Marini "Pieri" detto "il Ros") che aveva la macelleria a Darzo. In inverno ci portavano fino a Prà Bort e poi si continuava a piedi, mentre in estate ci portavano fino a Pice e si arrivava a Marigole comunque a piedi perché non c’era ancora la strada.
Da subito ho cominciato ad andare in galleria. Il lavoro era pericoloso, ma se si va d’accordo con il socio il mio primo era Zanetti Martino, il lavoro è piacevole. Il mio compagno era più anziano di me e mi trovavo bene con lui, se poi mancava lavoravo in coppia anche con altri. Il lavoro era manuale si lavorava con il badile e si riempivano a mano le carriole o il vagone senza fare nessuna cernita, quella la facevano allo stabilimento. Solo quando tutto il materiale che si estraeva era sterile lo mettevamo da parte e si lasciava su in miniera, ma bastava anche che dentro si fosse il 20% di barite che lo mandavamo allo stabilimento. C’era anche chi si occupava di aprire delle gallerie di ricerca e spesso questi trovavano molto materiale di scarto. C’era già la rivoltella ad acqua per abbattere le polvere. Il lavoro più pesante che avevamo era quello di portare dentro in galleria il legname per armare le volte che non crollassero: fino ad un certo punto si portava dentro con il vagone, ma poi bisognava sempre portarlo a spalle in profondità, magari sulle scale a pioli lungo i fornelli su ai piani; mi ricordo quando ho cominciato lavoravo al nono piano nella galleria Santa Barbara. Bisognava armare la galleria facendo il quadro: due tronchi di legno di robinia, dette gambe, e un cappello, una trave orizzontale di raccordo, poi si facevamo gli infilaggi con delle assi orizzontali, e dopo circa sessanta o massimo ottanta centimetri un altro quadro e solo così si riusciva ad andare avanti a prendere fuori il materiale. Il legname lo volevano con la sezione grossa perché sosteneva meglio e mi ricordo che quando sono venuto a lavorare allo stabilimento per anni ho aiutato a caricare il trattore e il camion del Giancarlo Donati di legname per la miniera.
Facevo un po’ di tutto quello che c’era da fare. Le volate normalmente si facevano alla sera o a mezzogiorno prima di andare a mangiare in modo che si lasciava il tempo alla polvere di cadere e si poteva vedere cosa era venuto fuori. Dopo una volata entrando in galleria per prima cosa si cercava di fare pulizia sulla parete perché non venissero giù sassi. Poi bisognava portare fuori tutto il materiale prodotto e si armava la galleria per poter andare avanti perché soprattutto in alto la miniera di Marigole tendeva a franare facilmente, dato che la roccia era friabile. Mentre invece la miniera di Val Cornèra non aveva bisogno di nessun sostegno. Da noi senza armare non si andava avanti di un metro. Poi hanno cominciato con le ripiene cementate per rimediare a questo problema, ma io non lavoravo più in miniera.
Il bello del lavoro era quello di tornare dentro a vedere cosa era successo dopo la volata: non sapevi che tipo di materiale trovavi oppure se la galleria aveva retto o era crollato tutto. Più di una volta mi ricordo che è venuta giù la galleria e siamo dovuti arretrare di alcuni metri, ripulire tutto e ricominciare a ricostruire la galleria perché non si sapeva più dov’era il punto dove avevamo fatto la volata. Bastava, infatti, che un sasso facesse cadere un cappello o una gamba che veniva giù tutta la volta della galleria già fatta. Quindi, se eravamo fortunati si trovava tanta barite e poco sterile e comunque c’era sempre il perito Tanghetti che veniva a controllare dopo le volate per capire dove andare avanti, perché lui sapeva se dietro dello sterile c’era della barite. Questo lo sapevano perché avevano già fatto prima dei sondaggi.
Mi ricordo l’incidente mortale del Gelani che veniva da Lavenone in provincia di Brescia ed era del 1925. Erano i primi di dicembre, una sera verso le 17 ed era quasi ora di smettere perché era lunedì. Ad un certo punto viene dentro in galleria il Vigilio Marini di Darzo e mi dice di sospendere il lavoro perché si è fatto male il Gelani. Allora siamo usciti ma non c’era niente da fare e l’hanno portato giù già morto. Certo ci sono rimasto molto male perché ti viene a mancare una persona che hai visto fino a poco prima e sai che poteva succedere a te.
Nel 1968 ai minatori davano la pasta asciutta o polenta e il resto bisognava arrangiarsi da soli a portarselo su. Invece durante il 1969 hanno costruito la cucina con il cuoco che faceva pranzo e cena con primo e secondo. Fino ad allora solo i minatori di Darzo riuscivano a farsi mandare il pranzo o la cena con la teleferica, gli altri che abitavano più lontano, dovevano portarsi su in montagna il cibo per tutta la settimana e questo aveva creato delle lamentele.
Certe volte il mercoledì quelli che abitavano vicini, potevano tornare a casa la sera e tornare la mattina di giovedì, ma allora bisognava scendere e salire a piedi perché il trasporto c’era solo il lunedì.
Nel 1969 sono venuto via dalla miniera per aiutare a ristrutturare la casa che mio papà aveva comperato e fino al 1973 sono andato a lavorare a Odolo nell’acciaieria.
Poi a partire dal 1973 sono andato a lavorare allo stabilimento della Baritina fino al 1996 quando sono andato in pensione. Mi ricordo che era ottobre, un giovedì e sempre Domenico Piccinelli mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto tornare a lavorare per la Baritina, ma non in miniera perché non ce n’era bisogno, ma giù allo stabilimento. Ho accettato, ma gli ho chiesto di poter cominciare il lunedì così potevo aiutare qualche giorno con la vendemmia. Mi dice va bene comincia lunedì. Poi mi capita dentro venerdì sera e mi dice che sabato avrei dovuto cominciare a lavorare, e così è stato. Per i due mesi successivi non ho fatto un giorno di riposo, neanche il sabato o la domenica. C’era tanto lavoro e non tutti erano disponibili a lavorare il sabato e la domenica, quindi eravamo in pochi e si lavorava sempre. Erano anni di gran lavoro e non si poteva lasciare ferme le macchine, c’era al’inflazione al 18%. Mi ricordo che il primo turno dalle 4:00 alle 12:00 l’ho fatto insieme a Sergio Beltrami.
La mia mansione allo stabilimento era quella di mugnaio, ma poi si faceva di tutto: lavoro ce n’era sempre. I primi anni c’era l’insaccatrice automatica, ma i sacchi bisognava metterli e toglierli a mano per impilarli sui bancali. Dopo hanno comperato il pallettizzatore che imballava i sacchi automaticamente. Mi ricordo che i primi giorni non avevamo molta fiducia di questa macchina e invece è stata una cosa bellissima che toglieva la fatica perché i sacchi pesavano di 50 chili e spostarli a mano era molto faticoso. Quando sono arrivato io c’era già il muletto che sollevava i bancali, ma prima li dovevano prendere su con il carrello, 8 o 10 sacchi alla volta. Pochi mesi dopo che ero arrivato hanno anche acquistato la pala per caricare le tramogge o spostare il materiale, mentre prima si faceva a mano con la carriola.
La paga non era alta, però, la comodità rendeva accettabile in lavoro. E’ vero che in miniera si guadagnava di più, ma la vita che si faceva e il lavoro erano più pesanti, quindi alla fine dei conti era poco anche quel guadagno.
I rapporti di lavoro erano buoni anche se mentre ero allo stabilimento è successo di tutto: quando la Baritina ha comperato la Sigma non ha licenziato gli operai, saranno stati almeno 35, ma li ha integrati. Allora ho lavorato con tutti e cambiavo collega continuamente e quindi si sapeva con chi si stava meglio e con chi un po’ meno. Anche con i proprietari i rapporti erano cordiali, i fratelli Corna l’ingegner Piero e il professor Giacomo, e il loro cugino l’ingegner Gianfranco quando venivano ci parlavano e ci salutavano. Anche con il perito Tanghetti si lavorava bene.
So che ad un certo punto ci sono stati dei problemi tra la proprietà e i minatori, ma io non lavoravo più a Marigole, quindi non so cosa è successo. Ma ad un certo punto i minatori sono venuti giù e non volevano tornare e alcuni effettivamente non sono più tornati, mentre la maggior parte poi ha ripreso il lavoro quasi subito.
Mi capita ancora di passare a Marigole per andare in montagna e mi fa ancora qualche effetto.
Mio cognato Rodolfo Grassi era del 1931 e ha fatto il minatore per la ditta Corna Pellegrini. È andato in pensione nel 1981. Quando è andato in pensione Domenico Piccinelli è diventato capo miniera.
Intervista raccolta a Lodrone il 28 febbraio 2013.
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