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Enrico Omicini

Enrico Omicini

"Il dottor Italo ed io avevamo un rapporto diretto: è successo che una volta gli ho chiesto cosa dovevo fare perché mi si era rotto il camion a Bassano, perché è lui che comanda, e mi ha risposto: “Mòro, fai quello che vuoi tu che va sempre bene”.

Mi chiamo Enrico Omicini e sono nato a Darzo nel 1935, da molti anni, precisamente dal 1966, abito a Trento. Sono sposato dal 1963 e ho due figli maschi. Il mio soprannome è “Mòro”, mentre quello della mia famiglia di origine è “Carlòte”. Mio padre faceva il carbonaio ed eravamo in sei fratelli, non avevamo campagna ed eravamo poveri.
Ho lavorato sempre per la ditta Maffei e per me il dottor Italo è stato come un padre. Ho cominciato che non avevo quindici anni e per farmi assumere ho dovuto avere il permesso dal Sindaco che mi è stato concesso, si legge nel documento, per “eccezionale e comprovata povertà”. Sono stato l’ultimo lavoratore assunto direttamente dal “Barba” e la storia è andata così.
Un giorno, stavo lavorando come bòcia insieme ai manovali nel cantiere della casa che i Piccinelli stavano costruendo sotto la strada, la statale, e il vecchio “Barba” Maffei passa con il cappello in testa diretto all’Ufficio Postale. Si ferma e ci guarda lavorare. Dopo qualche giorno va dal Giuseppe Piccinelli e gli dice: ”Quel Mòro lo dai a me, lo voglio io”. È così che ho cominciato a lavorare nella ditta Maffei. Era il mese di luglio del 1950 e il primo giorno ho lavorato diciannove ore, perché bisognava gettare il cemento per costruire il frantoio. Ho lavorato come manovale e operaio generico fino al 1956.
E’ stato in quel primo periodo che il dottor Italo mi ha preso in simpatia, forse perché a lui piaceva la gente dinamica e giovane che lavora, anche sbagliando, ma si dà da fare ed è sempre pronta a ricominciare. In quegli anni tutti avevano soggezione del Dottore, che si sentiva arrivare preceduto dall’odore delle sigarette al mentolo e dal suo cane boxer Pral, grosso come un vitello che mordeva tutto quello che girava. Ma io non avevo soggezione. Mi ricordo un fatto che secondo me spiega bene che cosa intendo. Lavoravo da pochi mesi e stavo portando a scaricare una carriola carica di barite lungo una passerella di assi alta da terra come una specie di ponte. Arriva il dottor Italo con il cane che mi vede e si avventa sulla ruota della carriola facendomi quasi perdere l’equilibrio. Allora mi sono arrabbiato “Vai via altrimenti ti prendo a calci”. Allora il dottore appoggiato ad una colonna mi guarda e mi dice: ”Perché non lo fai?” per vedere se ne avevo il coraggio. Allora io ho rifilato al cane un calcio tra le zampe di dietro così forte che è caduto dal ponte e il dottore se ne andato senza dire niente.
Nei sei anni che ho fatto l’operaio guadagnavo 25.000 lire al mese. Nel 1956 ho imparato ad andare con i camion studiando di notte e da allora ho lavorato come camionista per 30 anni, fino al 1986. Nel 1999 mi hanno conferito La Stella al merito per aver guidato tanto a lungo percorrendo circa 100.000 km all’anno senza mai un incidente. Ogni giorno segnavo sull’agenda i viaggi che facevo e ho conservato con cura ogni agenda e adesso ne ho 30 e se voglio posso sapere esattamente che trasporto ho fatto quel tal giorno nel tal anno.
Quando in quegli anni la Maffei ha aperto lo stabilimento di Trento, il dottor Italo mi ha voluto lì e così sono andato a lavorare in città anche perché non avevo ancora una famiglia dato che mi sono sposato nel 1963, proprio l’anno che ho provato a mettermi in proprio insieme a mio cognato Giovanni Marini comperando insieme un camion. Il dottor Italo è stato importante anche in questa occasione.
Mi ricordo che sono andato a trovarlo nel suo appartamento a Campiglio, una domenica, per chiedergli se mi dava una mano con il mutuo in banca dando la sua firma in garanzia. Infatti, i Maffei aiutavano i dipendenti per le spese straordinarie detraendo un tanto al mese dallo stipendio, oppure dando la firma come garanzia in Banca per fare un mutuo. C’era tutta la sua famiglia quel giorno nella mansarda, e c’era il caminetto acceso. Quando ha sentito la mia richiesta il dottor Italo mi ha detto: ”L’unica cosa che posso fare è spararti, perché mi lasci solo e io ci tengo a te. E tu, oltre a lasciarmi vieni, qui a chiedermi di aiutarti! Ti aiuto ad una condizione: mi devi trovare uno bravo come te che ti sostituisca" ”Non si preoccupi dottore”, gli ho risposto” ne conosco uno bravo”, ed era vero. Intanto in Cassa Rurale, quando si è saputo che volevo comperare un camion, mi hanno detto: ”Chissà quante firme porta il Mòro ” perché per comperare la casa ai miei genitori ho dovuto chiedere molte firme a garanzia del mutuo in Banca, nonostante che anche quella volta il dottor Italo mi avesse aiutato. Io a queste chiacchere ho risposto:  "Ne porto una sola e anche avanza!” Infatti era quella di un Maffei.
Dopo tre anni però, nel 1966, sono ritornato a lavorare nello stabilimento di Trento come autista, e mi sono trasferito definitivamente in città con la famiglia. Mi ricordo che il primo stipendio era di 130.000 lire.
Una volta stavo tornando a Darzo con il camion e lungo la strada incontro in macchina il dottor Italo con su i due figli che va nella direzione opposta e mi fa cenno di fermarmi, allora c’era poco traffico e si poteva fare. Mi chiede in prestito 10.000 lire per fare benzina perché deve andare a Milano e mi dice di andare dal ragionier Girardini a farmeli restituire. Il giorno dopo vado in ufficio e mi dicono che è impossibile, non ci credono, Girardini alza la voce prende il telefono e chiama il dottore a Milano. Dall’altra parte sento la sua voce che rimprovera il ragioniere il quale, senza fiatare, mi restituisce le 10.000 lire. Avevamo un rapporto diretto. Tanto per dire una volta ero a Bassano per un trasporto e mi si rompe il camion. Allora telefono al dottor Italo per sapere cosa fare perché è lui che comanda, ma lui mi risponde: “Mòro, fai quello che vuoi tu che va sempre bene”.
Certo questo rapporto portava anche delle invidie negli altri come quella volta dello sciopero. Negli anni in cui lavoravo a Trento ero anche rappresentante sindacale e una volta viene indetto uno sciopero. Si forma un picchetto di cinque o sei operai che davanti al cancello fanno la guardia perché non entrino i camion. A mezzanotte il picchetto smonta e gli operai vanno al bar lì vicino. Allora un leccapiedi che voleva farsi bello con il dottor Italo, il quale non sopportava gli scioperi, apre il cancello e fa entrare un camion a caricare. Gli operai lo vedono, vogliono entrare nello stabilimento, ma il cancello è chiuso e vengono a chiamarmi. Erano arrabbiati neri e minacciavano di dare fuoco allo stabilimento. Decido di prendere in mano la situazione: sono entrato in ditta anche se non avrei potuto e le ho cantate a quel leccapiedi. Gli ho detto che non ci si comporta così e ho proposto che il camion, anche se caricato, non doveva uscire fino al giorno dopo quando lo sciopero sarebbe finito. E così è stato fatto. La mattina dopo mentre io stavo per partire con il camion, arriva sparato in macchina il Dottore. Mi chiama lì e da quello che mi dice capisco che quel leccapiedi ha fatto la spia, e gli aveva detto che io avevo fermato il camion. Era molto arrabbiato e minacciava di denunciarmi per essere entrato nello stabilimento senza permesso. Allora gli ho spiegato che c’era un equivoco e che invece avrebbe dovuto ringraziarmi se aveva ancora in piedi lo stabilimento perché, se fosse stato per quello spione leccapiedi, questa mattina avrebbe trovato tutto bruciato.
Comunque la più grande soddisfazione per me è stata in occasione dell’ultima volta che ho visto il dottor Italo prima che morisse. Era malato grave e stava al Grand Hotel di Molina di Ledro sul lago dove portava sua moglie quando erano ancora giovani fidanzati. Lì ha vissuto gli ultimi due mesi sempre steso a letto, con la segretaria Cecilia senza voler vedere nessuno, soprattutto i leccapiedi che lo hanno circondato tutta la vita. Sapevo che stava male, ma non immaginavo che fosse così grave. Una domenica con mia moglie facciamo un giro al lago di Ledro e mi viene l’idea di passare a salutare il Dottore. La segretaria mi vede arrivare dalla finestra, mi chiama. Il Dottore sente il mio nome e dice alla Cecilia che vuole scendere a salutarmi. Tutti all’Hotel restano stupiti perché di solito non voleva vedere nessuno e stava sempre in camera sua. L’ho visto che stava per morire. Mentre stavamo per andarcene, chiama in disparte mia moglie e le dice: ”Mi raccomando signora, tratti bene il mio Mòro”.

Intervista effettuata a Trento nel mese di maggio del 2011.

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