"Quando c'ero su io a fare il “bocia” le paghe le faceva il papà del Giancarlo Girardini. Una volta mi ha detto “té, Carlo, sei l'operaio più difficile a fargli la paga”, perché le categorie delle paghe iniziavano a sedici anni e io non ne avevo ancora quindici. Quindi, in poche parole mi davano quello che volevano, era così in quegli anni."
Mi chiamo Carlo Igini. Sono nato a Lodrone nel 1932 e il soprannome della mia famiglia è i “Ciài”.
Ho cominciato ad andare su in miniera della Maffei in aprile del 1947 che non avevo ancora 15 anni. Mi ricordo che il capo cantiere era Zanardi Innocente, veniva da Porto Ceresio, ma abitava ad Anfo. Veniva su a lavorare in bicicletta sulla strada bianca e metteva la bicicletta qui da noi e così un giorno mi ha detto “mi servirebbe un “bòcia” in Val Cornèra e se vuoi andare oggi alla Villa dei Maffei c'è dentro il dottor Italo. Allora vado dal dottore, un uomo alto, e gli dico “io avrei bisogno di lavorare perché mio papà è tornato dalla guerra malato”, infatti era già malato di polvere prima di partire perché aveva lavorato in miniera. Ma lui mi risponde “dove vuoi andare che sei ancora troppo piccolo”, parlava in dialetto milanese. Allora gli rispondo “sì sono ancora piccolo, ma sono capace di lavorare” e lui mi risponde “allora va su” mi fa il gesto con la mano “va su a lavorare” e io tutto contento sono andato a casa, ho detto di prepararmi lo zaino e il giorno dopo sono partito per andare in Val Cornèra. Arrivato su non ho trovato un letto, ma ho dovuto prendere un pezzo di rete da un rotolo che c'era su nel solaio e mi sono fatto la branda con le assi. Dopo qualche anno, si vede che hanno chiuso un ospedale, sono arrivati su dei letti veri con il materasso, ma all'inizio è stato così.
Il mio lavoro da "bòcia" era quello di portare i ferri ai minatori. Eravamo su anche in 27 minatori e bisognava fare il tampone e i fèr da mina e anche il fioretto perché il vidiam* non c'era a quei tempi, ma è stato introdotto solo negli anni '50. Poi durante l'inverno dimezzavano il numero dei lavoratori, li mettevano in disoccupazione con un piccolo sussidio, soprattutto negli anni tra il 1948 e il 1952. Allora bisognava andare a Storo a firmare da Gino Zocchi nell'ufficio di collocamento tutti i giorni, perché avevano paura che si andasse a fare qualche altro lavoro. Poi in primavera la Maffei ci richiamava a lavorare. Far il bòcia voleva dire fare l'assistenza la minatore perché in quegli anni nel fare il foro per fare la volata si usavano dei ferri che però si consumavano presto e bisognava rifarli. Il capo metteva questi ferri sulla forgia e la macchina faceva la forma del fioretto e se c'era bisogno faceva anche il tampone, vale a dire la parte che entrava nella rivoltella, anche se questa finiva solo quando era stata temprata male. Allora ogni minatore si portava dietro in galleria cinque o sei ferri e si faceva aiutare da un bòcia come ero io a quei tempi. Andavano sempre in due i minatori, perché uno sosteneva la rivoltella mentre l'altro faceva i buchi per l'esplosivo, solo ultimamente sono stati introdotti i sostegni e l'acqua per abbattere la polvere. Poi quando ancora andavo io in galleria, si usava la miccia a lenta combustione per caricare la volata. Se certe volte il secondo minatore mancava, io facevo la sua parte a preparare l'esplosione. Ma il lavoro non era solo cavar barite, si andava anche in ricerca per trovare nuovi filoni. Allora il capo Zanardi ci dava la mezzeria per la direzione ed era un tipo in gamba nel suo mestiere.
Lavoravano su in quegli anni Seccamani Bortolo, che era il cognato di Zanardi Innocente, Seccamani Oreste, Cesco Boni e un certo Danesi mi ricordo solo il cognome perché a quei tempi ci si chiamava per cognome. Adesso sono tutti morti. Questi che ho detto erano tutti di Anfo e ce n'erano altri dieci o dodici da lì, ma ce n'erano anche da Bondone e da Baitoni che per venire a lavorare facevano una mulattiera, perché allora non c'era la strada, in bicicletta fino a Lodrone o a Darzo. Lasciavano la bicicletta in una casa che conoscevano e poi andavano in miniera, sia a Marìgole che in Val Cornèra a piedi. Soprattutto d'inverno era dura perché c'era anche un metro di neve e ci si dava il cambio per aprirsi la strada. Mi ricordo anche Baga Mario, Seccamani Antonio detto “Tonì Veciù”. Da ponte Caffaro mi ricordo un certo Comassi, e Fusi Cherubino che poi sono andati in Sardegna, perché la Maffei anni dopo ha preso fuori qualche minatore e qualche mugnaio di qua e portato alla miniera e allo stabilimento che avevano aperto a Sant’Antioco. Anche mio cognato Prandini Roberto è andato in Sardegna e poi è morto fulminato nel 1958 mentre stava lavorando, e ha lasciato la moglie incinta. Invece tra i ragazzi giovani mi ricordo Guido Ariasi che aveva un anno in più di me, ma è salito a lavorare che aveva già vent'anni, poi c'erano due Marini Candido e Gilio, uno lo chiamavamo “Bèno” poi sono morti di silicosi, Cominotti Severo e suo fratello Erminio tutti di Darzo, che però sono saliti alcuni anni dopo, che quelli più anziani di Anfo non c'erano già più.
All'epoca si dormiva su in cantiere: c'erano tre camere una per il capo, che era un appartamentino, e le altre per noi dove dormivamo anche in sei per stanza quando eravamo in tanti. Le stanze non erano riscaldate e d'inverno si formava il ghiaccio all'interno. Avevamo una cucina ma non un cuoco. Un minatore, Camillo Sella, verso le 11,30 lasciava il lavoro e faceva la polenta o la pasta per tutti gli altri. Poi le famiglie e le mogli mandavano su con la teleferica il companatico. La sera, invece, preparava la minestra in media per 20 operai. Non avevamo i servizi, e bisognava andare al torrente rio dei Paoli con gli stivali. Anche d'inverno. Poi quando è venuto a lavorare l'ingegner Dal Prà e ha visto come eravamo combinati, ha fatto costruire qualche gabinetto, ma erano già gli ultimi anni prima che chiudessero la miniera. Di sera, e la sera era lunga, per passare il tempo di faceva una partita a carte o si giocava alla morra mentre quelli più anziani, che erano già a dormire, si lamentavano per il rumore. Certe volte si fermava su in Val Cornèra anche il dottor Italo. Anni dopo l'edificio è stato ingrandito ed è diventato una casa dove i proprietari passavano le vacanze con la famiglia. L'Amelia e la Laura di Darzo e anche un'istitutrice che si chiamava Ada mi sembra, venivano su per accudire i tre figli del dottor Italo: la Milena, il Carluccio e il Massimo che stavano su tutta l'estate per cambiare aria. Anche l'Ermanno Armani di Darzo andava su con loro perché era di famiglia e aveva la stessa età del Carluccio che si chiamava così per distinguerlo dal Carlo Maffei “Barba”, il nonno che ha cominciato l'attività. I padroni però alla fine venivano su raramente, mi ricordo il Barba Maffei che saliva in teleferica in una “barèla” con una sedia fatta apposta per lui.
I minatori in quegli anni lavoravano tutta la settimana dal lunedì al venerdì quando cominciavano alle 4.00 e a mezzogiorno andavano a casa. Io quando ero teleferista stavo su fino alle 16.00 del sabato, perché bisognava tenere le tramogge piene per le ragazze della lavanderia che cominciavano il turno alle 4.00 del lunedì. Poi c'era anche da fare il turno di guardia alla polveriera: io lo facevo spesso perché dovevo restare fino al pomeriggio del sabato ed essere su presto lunedì per mandare il materiale in lavanderia, il tempo era poco e restavo su direttamente a fare la guardia. Quando restavo su d'estate veniva mia moglie a farmi compagnia e così faceva anche un po' di pulizie perché su non c'era nessuno che le facesse. Le andavo incontro lungo la strada e poi quando tornava in giù la riaccompagnavo per un pezzo. In realtà durante le guardie una cosa delicata era controllare la presa dell'acqua della centrale elettrica. Specialmente d'inverno la griglia dove passava l'acqua si intasava e bisognava rompere il ghiaccio che si formava, magari alle due di notte. Per arrivare alla presa c'era almeno un quarto d'ora all'andata altrettanto al ritorno e d'inverno con la neve non era comodo. Siccome lo stabilimento andava giorno e notte e funzionava con quella corrente lì, se la centrale non era a posto finiva che si fermava tutto. Avevamo delle lampadine nella casa che ci indicavano quando l'acqua scarseggiava e bisognava andare giù a liberare la griglia.
A fare la guardia mi pagavano le otto ore della domenica, mentre ai minatori pagavano anche le otto ore del sabato e della domenica. La paga era secondo gli accordi sindacali e c'erano diverse categorie: c'era il minatore che era capace di armare, che era quello che prendeva di più poi le altre categorie e ognuna aveva la sua paga. Quando c'ero su io a fare il bòcia le paghe le faceva il papà del Giancarlo Girardini. Una volta mi ha detto “te Carlo, sei l'operaio più difficile a fargli la paga”, perché le categorie delle paghe iniziavano a sedici anni e io non ne avevo ancora quindici. Quindi, in poche parole mi davano quello che volevano, era così in quegli anni.
Dopo aver fatto per un po' di anni il bòcia sono passato a fare il locomotorista; caricavo i carrelli del materiale e li guidavo fuori. Nel 1954 sono partito militare e nel 1955 sono ritornato, ma non ho più ritrovato il capo Zanardi che, nel frattempo, era stato mandato in Sardegna, ho trovato un certo Bristot, un bellunese. Gli operai si lamentavano che Zanardi era burbero, ma questo era molto peggio e infatti aveva bisticciato con diversi operai.
Tra il 1955 e il 1956 stava per andare in pensione Faes Placido che era nato nel 1896 e che lavorava alla teleferica. Negli ultimi anni in cui lavorava era stanco e io avevo cominciato ad aiutarlo perché allora la teleferica funzionava con le carrucole per buttar su il materiale ed era molto faticoso. Poi hanno messo un sistema più moderno con i carrelli e quindi il lavoro si poteva fare da solo. Quindi quando il Faes è andato in pensione io ero già esperto del lavoro e ho continuato lì. Allora sono andato giù io a sostituirlo e ho lavorato come teleferista fino al 1964 anche se la miniera di Val Cornèra l'hanno chiusa nel 1962, sono stato su ancora due anni insieme all'Ariasi per sistemare e mettere in sicurezza le miniere insieme alla ditta Grassi. Arrivava la ghiaia con la teleferica e l'Ariasi la portava giù dove la ditta Grassi faceva la presa. Mentre lavoravo alla teleferica ho conosciuto tutta la gente di Darzo, perché la teleferica serviva a tutti negli anni '50 per trasportare le cose fino ai fienili di Dospré, alle malghe per fare il formaggio.
Quando su la situazione si è sistemata siamo scesi per ultimi allo stabilimento e da allora ho lavorato ancora per vent'anni come autista delle pale. Lavoravamo a turno e si cominciava alle 4.00 del mattino. Arrivavamo i camion da Pinzolo perché barite non ce n'era più, che scaricavano i sassi di feldspato e bisognava frantumarli prima che arrivasse il materiale nei mulini. Allora noi riempivamo le tramogge con la pala. In seguito hanno modificato lo stabilimento di Pinzolo e da noi arrivava il materiale già frantumato in granella come riso e si poteva metterlo già nei mulini per farlo diventare come il borotalco. Si riforniva così le fabbriche di ceramica in Italia. Invece in via Maccani a Trento caricavano il materiale sui treni per la Germania. La Maffei in quegli anni era un ditta grossa: mi ricordo che una Santa Barbara l'abbiamo festeggiata in Sardagna vicino a Trento con tutti gli operai: quelli di Sondalo, della cava di Pinzolo, dello stabilimenti di Darzo ed eravamo su in 600.
Considerando che la maggior parte degli altri che stavano in miniera non sono neanche arrivati a compiere sessant'anni, sono contento di aver lavorato come teleferista. Il lavoro in miniera era veramente duro: c'era acqua, umidità, corrente d'aria tra le gallerie e si prendeva la pleurite o la polmonite anche perché i polmoni erano già un po' rovinati dalla polvere. Infatti a quei tempi le maschere non erano vere maschere, avevano solo su una spugna, dopo sono arrivate quelle vere e intanto per anni si mangiava polvere e poi veniva la silicosi. Quindi mi chiedono “come mai te sei ancora vivo?” e la risposta è che stavo poco in galleria, ci entravo solo per fare dei lavori secondari ogni tanto. Per questo mi sono salvato. Durante gli anni che sono stato su ho visto persone, ad esempio uno che si chiamava Donadoni, malato di silicosi dopo sei o sette mesi di galleria. Ho assistito anche a degli infortuni, per fortuna la maggior parte non gravi. C'era su un minatore di Storo, Selvino Scarpari si chiamava, che aveva paura dei colpi della volata e quindi quando si dava fuoco alle micce con due lampade a carburo, lui scendeva a nascondersi nei fornelli. Allora l'hanno mandato a lavorare nello stabilimento perché quando c'erano i botti perdeva il controllo. Però allo stabilimento è rimasto schiacciato da una cassonetto. Un aneddoto che mi ricordo riguardo il figlio di Innocente Zanardi, il povero Narciso. Un'estate è venuto a fare un periodo di tirocinio da noi perché studiava ad Agordo come perito minerario. Era del '32 come me e io dovevo insegnargli a caricare e scaricare la teleferica. Un giorno si è ferito un ginocchio con un carrello perdeva sangue e le ragazze della casa dei Maffei lo hanno medicato ma bisognava portarlo giù. Allora anche se era più alto di me di almeno quattro dita me lo sono caticato a cavalcioni sulla schiena e saltando come un capriolo sono sceso per la ripida mulattiera. All'altezza del castello c'era la maestra di Darzo, la Carla Marini con gli scolari che pensavano di vedere un gigante che scendeva dalla montagna.
Sicuramente negli ultimi anni il lavoro su in miniera è molto cambiato e lo so perché sono andato tante volte con il Tanghetti della Baritina su in Marìgole a vedere. Anche i minatori uscivano tutti puliti non bianchi come ai miei tempi. A dire la verità quando sono passato a lavorare giù allo stabilimento che facevo le mie 8 ore mi sembrava una festa, non un lavoro rispetto a quando stavo su in miniera.
Il mio povero papà, Agostino Igini "Ciài", che era del 1906, ha cominciato ad andare su nel 1936 che io avevo 4 anni. Poi nel 1939 è scoppiata la guerra: siccome era un volontario dei vigili del fuoco lo hanno richiamato, come tutte le classi del 1905-1906 e 1907 a Genova. Poi dopo l'8 settembre 1943 è tornato, ma alla fine della guerra non ha ripreso a lavorare in miniera perché non aveva più la salute. Ha continuato a lavorare in campagna avevamo le bestie e allora io l'ho sostituito in miniera. In realtà lui era contrario che io andassi dentro perché sapeva che cosa mi aspettava, ma io avevo la volontà di andare a guadagnare qualche cosa. Si è ammalato di silicosi, ma non gliela riconoscevano perché ci volevano 21 punti di inabilità per avere la pensione e lui non arrivava a quei punti quando ha fatto al richiesta. Poi dopo qualche anno, siccome la malattia è progressiva, è peggiorato ma non ha più fatto richiesta entro il termine. Una volta che stava male lo abbiamo portato a Tione in ospedale e da lì lo hanno trasferito ad Arco perché ci hanno detto che aveva i polmoni peni di polvere. Infatti in seguito è morto.
*Widia: è un carburo di tungsteno sinterizzato che nelle trivelle di perforazione è usato per i taglienti della punta o sotto forma di demolenti.
Intervista eseguita a Lodrone il giorno 8 novembre 2012
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