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Antonio Cortella

Antonio Cortella

"Adesso non trasporto più la ghiaia a salire e la barite a scendere da Marigole. Ma se ci fosse ancora la miniera lo farei molto volentieri."

Mi chiamo Antonio Cortella. Sono nato a Tione nel 1973 e il mio soprannome è “Giò” diminutivo di “Gioanéla”.
Quando ho iniziato la lavorare per la ditta Mineraria Baritina non funzionava più la teleferica per portare giù la barite da Marigole allo stabilimento. Siccome si faceva la già la ripiena cementata delle gallerie, conveniva trasportare verso valle il materiale estratto con lo stesso mezzo che portava su la ghiaia per fare il cemento. In questo modo non servivano più i teleferisti e non si doveva fare la manutenzione dell'impianto, che non era una cosa irrilevante. Il trasporto del materiale lo faceva Donati Giancarlo con il trattore prima, e un camion poi. Nel 1996 però Giancarlo doveva assentarsi per un periodo dal lavoro a causa di un'operazione programmata e così cercava  una persona che lo sostituisse. Mio fratello sapeva di questo e mi ha avvisato, visto che io avevo da poco preso la patente. Quindi, ho affiancato Giancarlo per un mese e poi da solo nel periodo in cui lui non c'era. Successivamente in società con lui ancora per qualche anno.
Facevo quattro o cinque viaggi al giorno, dipendeva anche dalle dimensioni del camion che usavamo. La mattina partivo a caricare le ghiaia dal Beltrami, oppure a Cimego e poi salivo a Marigole. Scaricavo il materiale e caricavo la barite; poi scendevo allo stabilimento. Così per tutto il giorno. 
Si aspettava il chiaro prima di partire, ma poi si lavorava anche con il buio. Ad esempio, d'inverno  nel tardo pomeriggio. L'aspetto meno piacevole del lavoro erano le condizioni della strada che saliva da Faserno e che era stretta e cementata solo a tratti. Il camion, soprattutto quello da 26 tonnellate è grande e, quindi, bisognava stare molto attenti. I problemi potevano essere tanti: il camion poteva sbadare perché cadeva un sasso dalla montagna, o per il ghiaccio o le foglie che facevano perdere aderenza alle ruote e allora il camion va indietro e c'era da sperare con le ruote dritte, perché la strada è molto stretta. Oppure ci possono essere alberi caduti che bisognava tagliare e spostare. Oppure una ruota che si fora perché è uscita dalla carreggiata. Mi ricordo che mi è successo una volta e ho dovuto lasciare il camion e tornare a prenderlo il giorno dopo. Ancora, gli stratempi che formavano dei solchi nelle parti ripide senza cemento con i buchi che andavano sistemati. Un altro pericolo era il ghiaccio sotto la neve. Siccome il camion creava dei solchi, quando si faceva la strada con la lama, veniva a pulire Lucio Manzoni da Caffaro con il trattore, un po' de neve restava nei solchi che poi ghiacciava e creava problemi. Allora dovevo sempre tenere la strada pulita con il sale e metterci la ghiaia. Se c'era bisogno quando arrivavo in alto mettevo anche le catene. Comunque, mi ricordo che quando ero con Giancarlo qualche volta il camion è partito all'indietro sul ghiaccio e sono saltato giù: per fortuna lui sapeva sempre come risolvere la situazione, perché era molto esperto di quella strada. Comunque spesso le sere in inverno con il buio bisognava fermare il camion, scendere con il sacco di sale in spalla e spargerlo sulla strada, aspettare che facesse effetto e poi ripartire. Anche le foglie in autunno potevano far slittare le ruote e quindi bisognava stare attenti. Ogni tanto mi fermavo alla Madonnina a ringraziarla perché andava sempre tutto bene.
A parte questi aspetti, il lavoro mi piaceva: era vicino a casa e la sera potevo sempre tornare. Poi mi trovavo veramente bene con le persone della ditta: il perito Gianvittorio Tanghetti e il perito Emilio Bartoli che mi coordinava i viaggi. E anche con i minatori che mi hanno aiutato con il camion quando sono stato in difficoltà. Mi fermavo spesso a mangiare in mensa con loro. Adesso non li vedo più tanto, ma siamo ancora in contatto. Ricordo i loro nomi, non i cognomi: Giuliano e gli operai, Michelangelo, Giuseppe, Adriano. Ovviamente questo lavoro è continuato fino a quando è rimasta attiva la miniera di Marigole.
Adesso lavoro per la Baritina solo due ore al giorno, solitamente la sera quando ho finito le consegne per altri clienti ricarico le tramogge per il giorno dopo. La barite arriva allo stabilimento dalla Cina, Marocco, dalla Polonia con i bilici che scaricano nei piazzali dell'ex Cima a Storo. Lì un operaio con la pala carica sul mio camion e io trasporto il materiale alle tramogge sopra l'impianto di Darzo. Qui viene fatta tutta la lavorazione: il lavaggio, la cernita e poi le macinazioni.
In questi sedici anni ho visto cambiare la ditta: quando ho iniziato il lavoro in miniera era ancora tanto; erano in sette o otto operai che con i macchinari riuscivano a fare quasi lo stesso lavoro che anni prima facevano in venti. Rispetto al lavoro di trasporto che faceva Giancarlo, quando ho iniziato io, c'erano già le autobotti di cemento che andavano su a fare la ripiena, mentre ai suoi tempi caricavano i sacchi di cemento sul trattore e una volta in cima andavano scaricati a mano e il cemento veniva prodotto lì davanti alle gallerie. Certamente non era comodo per lui salire con il trattore, lentamente, faceva la metà dei miei viaggi in un giorno e poi non era al caldo di una cabina.
Sono quasi sempre andato alla Festa di Santa Barbara e quello che mi piaceva era ascoltare i racconti degli anziani: io raccontavo le mie storie, ma le loro erano sempre più forti e si capiva che avevano fatto molta più fatica e corso molti più pericoli di noi. Insomma sono storie belle da sentire e mi fanno riflettere su come sono stato più fortunato di loro.
 
Intervista raccolta a Storo il 24 novembre 2014.

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