"Il dottor Italo e i capi erano severi con le cernitrici. Un giorno mi chiama: “Antonietta!, vai a casa”. “Perché?”. “Perché parli invece di lavorare.” Mi hanno lasciato a casa due o tre giorni e poi mi hanno richiamato."
Mi chiamo Antonietta Rinaldi sono nata nel 1928 a Darzo. Ho lavorato per la ditta Maffei per cinque anni dal 1946 al 1951 poi mi sono sposata con Attilio Piccinelli e allora quando ti sposavi ti lasciavano a casa.
Lavoravo come cernitrice. Quando ho iniziato non c’era ancora il nastro trasportatore, ma si lavorava intorno a un bancone. Dopo qualche anno sono arrivati i nastri. Soprattutto d’inverno era molto brutto c’era tanto freddo, perché lavoravi con le mani bagnate all’aperto solo con un po’ di tettoia. Mia mamma mi aveva fatto delle mutande di lana lunghe fino alle ginocchia. Noi provavamo a scaldarci un poco con dei fuochi, ma non troppo perché se veniva il capo, il Bepi Armani, ci sgridava. Non avevo tanta paura di lui perché eravamo parenti, ma le altre ne avevamo molta. Ma anche il padrone, il dottor Italo era severo. Un giorno mi chiama: “Antonietta!, vai a casa”. “Perché?”. “Perché parli invece di lavorare.” Mi hanno lasciato a casa due o tre giorni e poi mi hanno richiamato.
A me non piaceva andare a lavorare, quando c’erano le sciolte, cioè i turni di mattina alle quattro perché soffrivo il sonno. Quindi spesso piangevo. Pensavo: "Mi sposerò un giorno e non dovrò più venire qui a lavorare”. Poi alle otto arrivava il turno degli operai e ci portavano la colazione. Mia mamma dava a qualcuno il caffè latte caldo da portarmi. Poi continuavo a lavorare fino a mezzogiorno. Per un periodo ho lavorato la mattina dalle 4.00 alle 8.00 e poi riprendevo della 12.00 alle 16.00, ed era molto scomodo.
Il lavoro comunque serviva per comperare da mangiare.
Una volta bisognava trasportare le carriole piene di sassi e lo facevamo anche noi non solo gli uomini. Arriva il padrone e si ferma a guardarci mentre spostavamo queste carriole con grande fatica. Allora dico sottovoce alle mie compagne: “Adesso lo faccio scappare.” Quindi spingo la carriola vicino vicino a lui quasi gli vado contro, mentre gli dico “Òcio, òcio sior Italo!” Ha fatto un salto e se n'è andato. Era tremendo con le cernitici. Quando sapevamo che era in villa ci dicevamo tra noi “Silenzio che c’è il padrone” (Sìto che ghe 'l padrù) e allora quel giorno bisognava stare attente. Anche con il Bepi bisognava stare attente e mi gridava dietro di lavorare e non chiaccherare. Siccome lui andava a messa tutte le mattine alle sette, allora fermavamo il nastro e stavamo lì un po’ a chiacchierare fino alle otto. Ci voleva coraggio, ma lo facevamo anche se c’era qualche ruffiana che andava in ufficio a raccontare tutto.
Intervista effettuata nel mese di nobembre del 2010 a Darzo.
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