"Il dottor Cima era un tipo impulsivo e un po’ originale: se non gli andavi a genio ti mandava a casa, poi magari non eri ancora arrivato a casa che ti richiamava indietro perché si era pentito. Aveva sempre l’ultima parola da dire su quello che facevi."
Mi chiamo Aldo Zanetti. Sono nato a Darzo nel 1932 sono sposato con Augusta Rinaldi e abbiamo due figli.
Ho lavorato per la ditta Sigma. In quella ditta lavoravano soprattutto persone di Storo perché la ditta è sul territorio di Storo. Ho cominciato il 15 settembre del 1946. Mi sono sempre occupato di meccanica: ho cominciato a quattordici anni e lavorando ho imparato a fresare, tornire e saldare. Quando sono entrato la ditta lavorava la barite, e quindi mi occupavo della manutenzione dei macchinari: delle cocle, degli elevatori che spostavano la barite e dei separatori con le ventole che si usuravano e andavano sempre tenuti controllati. Poi nei primi anni Cinquanta, siccome la ditta ha cambiato macchinari, anche se lavorava negli stessi capannoni, e ha messo su una produzione di pezzi meccanici per le biciclette per quattro o cinque anni, mi hanno messo a lavorare su questa produzione. Io ero contento perché mi piaceva molto questa nuova attività. Dopo hanno cambiato ancora e hanno prodotto dadi e bulloni per la Breda di Milano. Con il dottor Felice Cima e il mio capo Quarenghi il rapporto era molto buono. Il dottor Cima era un tipo impulsivo e un po’ originale: se non gli andavi a genio ti mandava a casa, poi magari non eri ancora arrivato a casa che ti richiamava indietro perché si era pentito. Aveva sempre l’ultima parola da dire su quello che facevi. Mi ricordo che una volta il dottor Cima aveva discusso con l’ingegnere che c’era giù: il dottore voleva fare una modifica ad un macchinario che secondo l’ingegnere non era possibile fare. Allora il dottore è venuto da me: “Zanetti, secondo te è possibile fare questo pezzo?” “Proviamo a fare in questo modo” gli ho risposto e sono riuscito a fare questa modifica come voleva lui. A me è andata bene, ma l’ingegnere se l’è sentite cantare. Quando gli ho detto che me ne andavo in Svizzera ormai stava pensando di lasciare, anche perchè aveva avuto un brutto incidente stradale e non stava più bene. Infatti poco dopo nel 1973-74 ha chiuso e un po’ alla volta ha venduto prima le macchine e poi alla Baritina lo stabilimento con la centralina elettrica. In quegli anni si lavorava tanto, con orari molto lunghi e la paga era bassa.
Allora nel 1960 appena sposato sono stato un anno in Svizzera, vicino a Zurigo in una ditta grossa con duemila operai. Lì come stipendio si stava più che bene: tanto per dire qui prendevo 36.000 lire al mese e lì, lavorando solo alla fresa, guadagnavo 280.000 lire. In Svizzera prima di assumermi hanno voluto che mandassi un curriculum delle cose che avevo fatto e sapevo fare. Poi mi hanno assunto subito. Con la lingua non ho avuto particolari problemi, perché c’erano tantissimi italiani e c’era sempre qualcuno che ti aiutava.
Nel frattempo avevamo avuto un bambino e il capo che avevo in Svizzera, che era un bresciano, mi voleva convincere a portare lì tutta la famiglia. Noi all’epoca abitavamo a casa dei miei genitori e allora tutta la famiglia ci ha fatto pressione perché restassimo a Darzo: c’era la campagna, c’erano i genitori e i nonni. Abbiamo rinunciato alla Svizzera. Col tempo ogni tanto ci siamo pentiti di questa scelta.
Lo spunto per ritornare è stato nel 1961 quando mi è arrivata la chiamata per venire a Trento a fare una selezione per andare ad insegnare all’Enaip. Mio zio era direttore della scuola Enaip di Storo e ha chiesto a quello della sede centrale di Trento di poter avere qualcuno che seguisse i ragazzi nei laboratori pratici della scuola. Quindi sono tornato, e per ventun anni ho fatto l’insegnante, prima a Storo, poi in val di Sole e di lì ho chiesto un avvicinamento e mi hanno mandato ad Arco dove ho insegnato per undici anni fino alla pensione. Prima di scegliermi mi hanno tenuto un mese a Trento a fare prove per verificare se ero idoneo e poi mi hanno dato l’incarico.
All’epoca la paga non era certo quella della Svizzera, ma era di più di quella dell’operaio e poi ero più vicino alla famiglia. Grazie ai soldi che avevo guadagnato, mi sono comperato una automobile e potevo girare e andare e tornare dal lavoro anche se non era a Darzo. Allora insegnare era bello e dava molta soddisfazione, poi dopo il 1968 è diventato un disastro: i ragazzi hanno cominciato a fare quello che volevano e pretendevano il voto politico, invece di imparare. Non tutti, c’era sempre qualcuno che era interessato e seguiva, ma la maggior parte stava lì ma non gli importava di imparare e disturbava. Soprattutto quando mi sono trasferito ad Arco la situazione è peggiorata. Io volevo insegnare la precisione, in meccanica le cose vanno fatte in un certo modo altrimenti poi non funzionano e su questo non accettavo di cambiare sistema, e invece i ragazzi facevano le cose tanto per farle. Mi ricordo che per anni tornavo sempre a casa con il mal di testa.
Mio papà Giovanni Zanetti era del 1907 ed è deceduto 1997. Ha lavorato dodici anni alla ditta Maffei dal 1932 fino al 1944. Lavorava all’essicatore dove la barite veniva asciugata prima di essere macinata nei mulini. Poi si è licenziato perché a lui e a mio zio è successa una cosa poco piacevole: sono stati incolpati ingiustamente di un furto dentro lo stabilimento. Sono venuti in casa anche i carabinieri. Quindi, ha fatto per alcuni anni altri lavori e poi nel 1965 è stato assunto dalla ditta Corna dove è rimasto fino al 1973 quando è andato in pensione. Lì lavorava come pica prede cioè scalpellino per fare le macine. Tornava a casa sempre tutto bianco di polvere. Non c’era nessuna protezione. Alla fine gli hanno riconosciuto il 50% di invalidità a causa della silicosi. Quando ha smesso di lavorare non usciva più di casa, se non quando bisognava andare all’ospedale per i controlli. Una volta era stato ricoverato per un certo periodo e un giorno ci chiamano dall’ospedale di andarlo a prendere perché vuole tornare a casa. Siamo andati lì e mio papà ha dichiarato che stava bene e era guarito, pur di tornare a casa. Così gli hanno tolto metà della pensione e dopo si era pentito e diceva “L’ho fatta grossa!” e a casa piangeva e si lamentava. Ma oramai era andata così.
Intervista effettuata a Darzo nel mese di dicembre del 2010.
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